mercoledì 11 novembre 2015

LE TOUR C'EST LE TOUR


2007.
Luglio si portava addosso quel caldo asfissiante che nelle pianure di Torino quasi ti soffoca. Avevo solo 13 anni ma ho molti ricordi di quella giornata: la mia prima volta al Tour.
Emozionato come un corridore che deve partire per la sua prima Grande Boucle, la tensione che mi attraversava i nervi e scorreva per le vene non era minore di quella presente la domenica, quando di solito mettevo il numero sul manubrio e andavo a correre in mtb.

Ai tempi non conoscevo nessuno o quasi, giusto quei pochi nomi più famosi, quelli che ti piacciono solo perché i giornali e la tv parlano spesso di
loro. Cunego, Armstrong, Savoldelli, Simoni, Di Luca, Basso.
L'Italia del ciclismo era forte, forte davvero, e i tifosi andavano a vedere i loro eroi sulle salite che hanno fatto la storia delle due ruote. Fu così che io e mio fratello quel giorno partimmo insieme a mio zio Alberto in direzione Galibier, una delle salite monumento, pietra miliare del Tour de France.
Mio zio aveva calcolato tutto nei dettagli, e io ero entusiasta di quell'esperienza. Gli sarò sempre grato per avermi fatto vivere quella giornata Super.
Dopo qualche ora di macchina scaricammo le bici (tutti e tre in Mtb) e partimmo alla volta della cima.

Sapevo che la salita fosse lunga, ma quel giorno scoprii un ciclismo diverso da quello che avevo sempre conosciuto e praticato. Quel giorno scoprii sua maestà, Il Ciclismo.

Pedalavo molto lentamente e ad ogni metro mi si apriva uno scenario nuovo, venivo letteralmente investito da odori e rumori di un mondo che non conoscevo. A bordo strada c'erano tifosi di ogni nazionalità accampati con tende, sedie, sdraie, camper e banchetti. I norvegesi, i belgi e gli olandesi andavano per la maggiore, o almeno questa era l'impressione che davano anche grazie a tutto il casino che facevano nonostante mancassero ancora alcune ore al passaggio dei professionisti.
A bordo strada scorrevano fiumi di birra, le salsicce bruciavano emanando odori forti e attraenti quando alla cima mancavano ancora diversi km, ma di colpo la fatica non esisteva più, cancellata.
Guardai in alto e mi sentii piccolissimo al cospetto di quella montagna forse troppo grande per me. Mentre aumentavo il ritmo spinto dal continuo tifo sentivo di salire bene, mentre ciclisti più grandi mi passavano con più facilità attirando la mia attenzione.
I copertoni larghi e i loro tasselli di certo non mi aiutavano, ma tornarono utili quando dovemmo cambiare programma a causa della strada chiusa negli ultimi 2-3 km di salita, perché ormai l'arrivo dei corridori era imminente. Restavano due cose da fare: aspettarli qui oppure arrampicarsi per i prati, fino in cima. Non ci pensammo neanche, due minuti dopo spingevamo la bici sull'erba di montagna tra grossi sassi fino su, a pochi metri dallo scollinamento, dove c'era il Gpm.


La vista da lassù, a 2600 metri, era pazzesca e l'aria era decisamente più fredda. Il passaggio della carovana fu una delle cose più belle perché non finiva mai e più che tutto quasi ogni carro regalava qualcosa: caramelle, cappellini, bandierine, adesivi, giochi e altro ancora.
Immaginate di avere 13 anni e di essere al Luna Park. Ora moltiplicate per 100 il vostro divertimento. Mi sentivo così.

Poi dopo decine di moto e di macchine a seguito della gara, passò il primo: Soler.
Rimasi più a bocca aperta io di lui, nonostante stesse andando come un dannato a quell'altitudine.
Poi subito dopo arrivò qualcuno che tra gli altri mi colpì più di tutti.
Non pedalava, ma danzava. Coordinato, composto, diverso dagli altri, efficace come pochi: era Alberto Contador.
Quasi nessuno lo conosceva, neanche io. Aveva attaccato da poco e avrebbe poi vinto quel Tour.
Poi ne passarono tanti altri e tutti gli spettatori lassù attesero fino alla fine, perché nel ciclismo funziona così, si aspettano tutti. Quel giorno persino la montagna aspettò, in silenzio. E gli ultimi erano proprio come me li ero immaginati, sembravano dei dannati all'inferno, avevano gli occhi di chi chiede pietà e le gambe distrutte dalla fatica di una corsa come il Tour. Andavano la metà della metà dei primi, ma erano comunque arrivati fino a lì e andavano applauditi.

La discesa e il ritorno fu un momento triste, perché sapevo che sarebbe passato parecchio tempo prima di rivedere uno spettacolo del genere.
Innamorato del Galibier e immerso nella fatica del ciclismo.

Le Tour c'est le Tour.

Jack

1 commento:

  1. Un'altra dimostrazione che oltre a saper pedalare sai anche scrivere.
    Bravo Jacopo!

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